Personaggi illustri e famosi
Ultimo aggiornamento: 1 dicembre 2022, 17:12
Giancarlo Aliberti (1670 - 1727)
- considerato il massimo pittore astigiano dell'epoca barocca
Nacque a Canelli il 13 febbraio 1670 e morì ad Asti nel 1727. Fece i primi studi nella città di Asti, probabilmente nella bottega dei pittori monregalesi Fariano. Agli inizi del XVIII secolo si trasferì a Roma dove soggiornò per alcuni anni e si perfezionò. Al suo ritorno ad Asti, nel 1708, sposò la figlia del pittore astigiano Gio. Antonio Laveglia.
Con questo matrimonio allacciò rapporti di parentela e di lavoro con molti pittori astigiani (Fariano, Laveglia, Bonzanigo e Pavia). Sue opere si conservano a Canelli, Asti, ed in altri piccoli centri dell'astigiano, ad Alessandria, Casale, Pavia e Chesarco.
Le principali tele conservate in Canelli sono: "La morte di San Giuseppe" e "Limmacolata concezione", ambedue ora nella parrocchiale di San Tommaso. "La madonna del rosario", "La Pentecoste", "Lepifania", "San Rocco tra gli appestati" e "San Giacomo". Morì ad Asti il 2 febbraio 1727.
"Col crin sparso, e negletto, / molle di limpid'onda / sorse il Belbo dall'acque, e sulla sponda / s'assise del suo letto,/ dove parte nel piano, e parte in colle/ il bel Canelli suo giace, e s'estolle. // In lui fissi tenea / attentamente i lumi, / e: 'Dove sono gli aurei costumi? / Dove i figli- dicea- generosi, che un tempo in pace e in guerra / l'ornamento già fur di questa terra? // D'onor, di pura fede/ tan t'anime vestite, Canelli, o mio Canelli, ove son ite? / O nido, o patria, o sede / di valor, di giustizia e di pietade, / dov'è l'onor della tua prisc aetade?'..."
Nel 1780 il canellese padre Caire, priore del convento di S. Bernardino in Asti, iniziava con questi versi francamente farraginosi una Canzone composta per celebrare la nomina del concittadino padre Emerico da Canelli al ministero provinciale dei Cappuccini Piemontesi.
Con una buona dose di retorica il poeta individuava nel dignitario francescano l'unico personaggio in grado di riscattare la decadenza culturale e morale in cui Canelli, a suo dire, era piombata, e di collegarsi agli eroi della sua "prisca etade". A proposito di questi ultimi, una nota esplicativa dello stesso Caire afferma: "Fra i molti, che si potrebbero annoverare, i quali diede alla luce Canelli, uomini insigni in Religione, in Toga, in Armi ed in altre scienze, ed Arti, non si devono tacere: l'Aliberti celebre pittore, che fiorì sul fine del secolo passato, e sul principio di questo, di cui rimangono molte opere eccellenti, e pregiatissime..." .
La nota continua elencando una fitta serie di altri personaggi, ma è significativo che proprio il "celebre pittore" ne occupi il primo posto, e che la Canelli dell'epoca lo ritenesse ancora, senza esitazione, il suo figlio più illustre. Pochi anni dopo, nel 1794, il Della Valle affermava perentoriamente la nascita astigiana dell'Aliberti, e sulla sua scia si pose la maggior parte di coloro che ebbero ad occuparsene durante l'Ottocento, benché in ambito locale l'erudito Gian Secondo De Canis affermasse inascoltato che fu Canelli patria del celebre pittore Aliberti.
Nel 1890 Carlo Vassallo pubblicava documenti che accertavano una volta per tutte l'origine dell'artista ed inducevano il Vesme a compiere ricerche d'archivio nelle parrocchie canellesi, con il solo risultato, purtroppo, di ingarbugliare notevolmente la sua biografia, in particolare fissandone erroneamente la nascita nel 1662 e la morte nel 1737 ~. Tutti gli scritti e gli studi successivi furono condizionati da una simile, fuorviante cronologia, spesso tornando addirittura ad accreditare per eccessiva superficialità l'origine astese dell'Aliberti.
In un panorama così sconfortante si può ben capire il pressoché totale disinteresse per le sue opere canellesi, rimaste per lo più inedite ed ignorate fino a tempi molto recenti. Solo nel 1972 Giovanni Vittorio Boido riuscì a ristabilire l'ordine con uno studio che a tutt'oggi rimane fondamentale per la conoscenza delle vicende famigliari del pittore. Verso la metà degli anni Ottanta, anche sulla scia ditale ricerca che rivelava per la prima volta gli stretti e duraturi legami di Aliberti con la sua città natale, il Comune di Canelli pensò di dedicare una grande mostra al suo artista più illustre.
Il progetto non andò in porto, ma le ricognizioni condotte per l'occasione consentirono una prima schedatura dei suoi quadri ancora in loco, fornendo i presupposti per il loro restauro e soprattutto sensibilizzando l'ambiente locale rimasto fino ad allora indifferente alle benemerenze del suo antico concittadino. Scopo di questo scritto è presentare i dati ormai acquisiti che consentono di corredare la biografia dell'Aliberti con una serie di opere giovanili poco conosciute, o del tutto inedite, fondamentali per ricostruire il suo iter formativo e professionale di "celebre pittore".
La società
Giancarlo Aliberti visse ed operò a Canelli per oltre metà della propria esistenza: durante tale periodo la sua produzione artistica risulta essere indirizzata prevalentemente alla committenza locale, ed in misura minore a quella di una ristretta area confinante. Certamente a Canelli egli gettò le basi della sua celebrità e del suo successo, grazie anche all'incondizionato ed entusiastico appoggio dei suoi concittadini, che fecero di lui il capofila di quella "officina barocca" destinata a cambiare il volto della località in poco più di un decennio. Merita dunque dedicare qualche cenno all'humus sociale da cui germogliò e si alimentò l'arte alibertiana.
La cittadina, centro "minore" ma tra i più considerevoli dell'Astesana, dopo un periodo di notevole prosperità tra XV e XVI secolo era stata una delle località più colpite dalle devastazioni delle lunghe guerre contro il Monferrato: nel 1617 gli Spagnoli alleati al duca di Mantova avevano raso al suolo buona parte dell'abitato, aggravando ancor più una drammatica recessione economica che portò in pochi anni alla perdita di quasi due terzi della popolazione residente.
Solo nella seconda metà del secolo le sorti della comunità presero a migliorare, grazie soprattutto a due fattori: la produzione ed il commercio del vino Moscato e l'industria della seta grezza.
Nel 1690 la superficie destinata a colture viticole, più o meno specializzate, sfiorava il 70% della superficie agraria totale. Per quanto all'epoca le rese produttive fossero molto basse, la vinificazione e la commercializzazione del Moscato consentivano un reddito fino a tre volte superiore rispetto a quello ricavato dai vini comuni. La maggiore disponibilità finanziaria del mondo rurale, oltre a permettere tenori di vita piuttosto elevati, incrementò notevolmente l'attività di una fitta schiera di mercanti locali che rafforzarono l'intraprendenza commerciale della località, già consolidata nel XVI secolo ma poi quasi scomparsa durante il lungo periodo di guerre.
A partire dal 1660 circa, grazie alla presenza di capitali sempre più consistenti originati dalle "esportazioni" vinicole, alcuni investitori canellesi avviarono fonde filature di seta, per sfruttare al meglio la grande produzione di cochetti che da almeno un secolo caratterizzava le colline del circondano e più in generale di tutta l'Astesana.
Nel 1695 il Comune indica come pecuniosi cinque imprenditori che dispongono di capitali tra le 5.000 e le 20.000 lire, ".. sendo tutti negotiandi, e facendo filar sete. Non si può sapere se sonovi altri particolari pecuniosi, sebben si facciano diverse filature in questi luoghi, atteso che quelle si fanno con denaro preso in prestito, e a nome d'altri mercandi forastieri...". Seta, Moscato e commercio sono dunque le fondamenta su cui si reggono sia l'economia locale, sia le fortune più o meno vistose di una settantina di famiglie cospicue, riconducibili alla ventina di stirpi che costituiscono il ceto dirigente cittadino. Le stesse stirpi che fra il 1690 ed il 1700, acquisendo i patronati delle nuove cappelle sorte nelle parrocchiali appena ricostruite, si getteranno in una vera corsa alla committenza nella quale Giovanni Carlo Aliberti sarà l'interprete pressoché unico delle loro ambizioni artistiche.
La famiglia
Quella degli Aliberti era una tenace prosapia contadina, documentata fin dal 1610 nella frazione canellese di Cantònice, che al pari di altre seppe resistere con le unghie e coi denti alle terribili avversità della prima metà del Seicento, e che in seguito riuscì a migliorare notevolmente la propria condizione con una sorprendente arrampicata sociale. Principale artefice del salto di qualità fu Giovanni Aliberti che nel 1664 si trasferì in una casa sulla contrada maestra di Canelli, per esercitarvi la sua attività di mercante da poco intrapresa: attività che gli consentì di inserirsi a pieno titolo nel notabilato cittadino, permettendogli di ricoprire la carica di Sindaco in più riprese tra il 1672 ed il 1679.
Sempre nel 1664 Giovanni sposò Francesca, figlia del facoltoso messer Pietro Matteo Gallia, oriundo di Solero ma residente a Canelli già dalla metà del secolo. Costui, in collaborazione con il figlio Perpetuo, gestiva una florida bottega di ferraro con annessa fucina, ampiamente coinvolta nei cantieri civili e religiosi e frequentemente impegnata in lavori di artigianato artistico. In un simile contesto famigliare, fondato su solide basi economiche e su un considerevole prestigio sociale, nel 1670 nacque Giovanni Carlo Aliberti, terzogenito di otto fratelli. Significativa la scelta dei suoi padrini di battesimo, che furono il signor Giovanni Battista Ratto, torinese da tempo residente a Canelli, imprenditore tessile e mercante di seta grezza ricordato tra i più pecuniosi del comune, e donna Clemenzia Vanzino, esponente di una ricca famiglia di appaltatori delle esattorie cittadine: veramente la crema del notabilato locale.
Il capofamiglia Giovanni morì prematuramente nel 1679, lasciando alla vedova ed ai parenti più vicini il carico e la tutela dei figli, ancora tutti in minore età. Interessante notare che la tutela di Giovanni Carlo fu affidata allo zio Perpetuo: fu forse proprio questo artigiano-artista ad avvedersi delle doti e delle potenzialità del giovanissimo nipote, probabile assiduo frequentatore della bottega, e a stimolarle indirizzandolo allo studio della pittura. E' comunque certo che Giovanni Carlo iniziò assai precocemente la sua formazione, poiché nel 1687, all'età di diciassette anni, risulta aver già concluso il suo apprendistato svolto ".. nella Città di Àsti per imparare l'arte del pittore"; presso quale bottega tale apprendistato abbia avuto luogo resta ancora un mistero. V. Boido ipotizza essersi trattato di quella di Giovanni Battista Fariano, ma è forse più plausibile identificare il maestro dell'Aliberti in Giovanni Antonio Laveglia, visto che il Canellese collaborerà più volte nel corso degli anni con lui e con il figlio Giovanni Battista, e che nel 1708 ne sposerà anche la figlia Lucrezia Maria.
La scelta di una modesta bottega astigiana fu certamente effettuata dai parenti del giovanissimo Giovanni Carlo, e probabilmente dallo zio Perpetuo, che doveva avere una discreta conoscenza dei pittori attivi nella sua provincia. Dal punto di vista artistico tale scelta può sembrare rinunciataria, soprattutto se si pensa che nell'ambito della diocesi di Acqui, a cui Canelli appartiene, era attivo all'epoca l'ottimo Giovanni Monevi, e che in centri non lontani come Alessandria o Casale il panorama delle arti figurative era assai più articolato e gratificante. Bisogna però considerare che per i canellesi di fine Seicento Asti manteneva intatto il ruolo di "capitale territoriale" e di imprescindibile punto di riferimento per i commerci, la politica e la cultura. Tanto più che per tutti gli anni Ottanta del secolo fu un autorevole canellese, Giovanni Battista Grasso, a ricoprirvi la carica di giudice e podestà, e che le principali famiglie di Canelli vi si erano da tempo ramificate.
Gli esordi
Nel 1690 gli agrimensori Pietro Maria Gallo e Giovanni Merlino redigevano il nuovo catasto della Magnifica Comunità di Canelli, in cui furono registrati i beni del "Signor Giovanni Carlo Aliberti".
Sappiamo con assoluta certezza che il personaggio in questione è proprio il nostro pittore, poiché le proprietà descritte sono le stesse assegnategli nell'atto di divisione tra gli eredi del fu Giovanni Aliberti. La cosa più sorprendente dell'attestazione catastale è proprio la qualifica riservata al personaggio: quel Signor attribuito ad un giovane di vent'anni, in una località dove lo stesso titolo è gelosamente riservato a solo dieci altre persone, su circa "450 registranti"! Si tratta di dottori in legge, medici, qualche notaio (non tutti), un paio di ricchi imprenditori e finanzieri: il vertice di un nutrito notabilato locale costituito da oltre "70 messeri", molti dei quali assai facoltosi, ma tutti con il "peccato originale" di aver costruito le proprie fortune praticando le "arti meccaniche". Aliberti, benché ventenne e presumibilmente non ricco, è già inserito a pieno titolo nel Gotha della società canellese, non solo in quanto esercente un'"arte liberale", ma soprattutto perché da essa ha già saputo trarre notorietà e prestigio ben oltre le mura cittadine. Per quali vie e con quali mezzi il giovane Giovanni Carlo fosse pervenuto a simili risultati non è dato sapere, ed al momento si possono solo formulare alcune ipotesi per riempire almeno il vuoto degli anni che intercorrono tra la fine dell'apprendistato (1687) e la prima opera databile con sicurezza giunta sino a noi (1694-1695).
L'affresco della Canonica di San Leonardo
Certamente Aliberti iniziò la sua attività con i modesti lavori che la committenza locale poteva assegnare ad un pittore ancora giovanissimo ed alle prime armi: "lavaggi" e ritocchi ad opere preesistenti, realizzazione di apparati cultuali, qualche quadretto devozionale o decorativo per le case della borghesia. Potrebbe essere di sua mano, ad esempio, (ma il condizionale è d'obbligo) l'interessante affresco che decora la volta di una sala nella casa parrocchiale di S. Leonardo.
Vi si illustra la storia di Fetonte, scaraventato dal carro del sole per volere di Giove e piombato nel fiume Po con dolore del dio Eridano e delle ninfe Eliadi. Sono evidenti i richiami culturali ed iconografici ai dipinti con le Storie di Diana realizzati da Jan Miel nella reggia di Venania; dipinti che l'ignoto pittore canellese poteva conoscere grazie alla circolazione delle loro riproduzioni a stampa eseguite dal Tasnière entro il 1679. A dispetto dell'ingenuità compositiva e del disegno a tratti impacciato, è un'opera assai gradevole, eseguita con tecnica più che soddisfacente.
L'accurato studio anatomico dei personaggi, la corretta definizione prospettica del vasto paesaggio subalpino, l'atmosfera aggraziata e fiabesca della scena, la tavolozza dalle tinte fresche e raffinate, l'ostentazione di alcune colte citazioni fanno pensare ad una mano ancora acerba ed inesperta, ma già ben educata e professionale, come appunto poteva essere quella di un Aliberti fresco di studi e desideroso di mettersi in luce agli occhi dei suoi concittadini.
Cicli decorativi nella parrocchiale di San Martino in Calosso d'Asti
"La chiesa parrocchiale (di Calosso, n.d.r.) è dedicata a San Martino, è di moderna costruzione ed ha niente d'osservabile alla riserva delle cappelle laterali le quali sono per intiero dipinte dal celebre Aliberti, essendo egli ancor giovine e non troppo esperto nella pittura". Il De Canis, nella sua Corografia Astigiana, non tradisce il minimo dubbio nell'assegnare all'artista canellese l'impegnativa impresa pittorica della parrocchiale di Calosso: non sappiamo su cosa si basasse tanta sicurezza, visto che al momento non si conoscono documenti abbastanza espliciti da confermarla, e che la scomparsa dell'opera non permette valutazioni o attribuzioni di sorta. L'unico dato certo è che a partire dal 1688 la chiesa, edificata tra il 1680 ed il 1685, fu oggetto di una vasta campagna decorativa, costata la cifra considerevole di 500 lire.
E' altamente probabile che la commissione fosse affidata all'Aliberti, pittore localmente noto per aver già dato prova di sé nella vicina Canelli, ma che per la giovane età e per l'acerba esperienza doveva avanzare pretese economiche assai vantaggiose e competitive. Né bisogna dimenticare che la segreteria comunale di Calosso era affidata all'epoca al notaio canellese Roggero, il quale poteva aver indirizzato la scelta del Comune, principale committente dell'impresa, verso il suo giovane concittadino. Una prova indiretta relativa alla presenza dell'Aliberti potrebbe essere costituita dalla pala della Madonna del Rosario, recuperata dopo la distruzione delle cappelle laterali ed ancora in loco.
A prima vista la tela, di difficile lettura dato il pessimo stato di conservazione, non sembra presentare molta affinità con le opere alibertiane oggi conosciute: l'impianto rigido, il tono austero e didascalico, il disegno non esente da imperfezioni e scorrettezze indurrebbero ad attribuirle altra paternità. Eppure al giovane pittore, formatosi in botteghe certamente modeste, alle prese con committenze non particolarmente esigenti ed aggiornate, si possono concedere opere d'esordio non particolarmente felici. Del resto lo stesso Aliberti, a dar retta al De Canis, valutò severamente la sua impresa calossese, forse perché troppo lontana dal linguaggio maturato grazie alle esperienze successive. I punti di contatto con le sue opere note tuttavia non mancano, a cominciare dalla figura di Santa Caterina da Siena quasi identica a quella dipinta circa dieci anni dopo nella pala del Rosario a S. Leonardo di Canelli. Il viso dell'angelo che sostiene Gesù bambino ed i putti spigliati che incoronano la Vergine con un sento di fiori sembrano anticipare alcune soluzioni formali che costituiranno una costante di tutta la produzione alibertiana, così come la luce dorata e calda che fa da sfondo alla composizione. Lo stesso volto di San Domenico, realisticamente scolpito con im-pietose illuminazioni quasi ceraniane, rimanda ad un gusto per chiaroscuri forti e decisi, ben evidente nelle opere giovanili, e all'interesse per il mondo tardo-manierista lombardo che sembra essere uno dei pilastri su cui si era basata la sua formazione.
La svolta stilistica
Se l'attribuzione del Rosario calossese dovesse essere confermata, bisogna prendere atto del vistoso affinamento intercorso tra questa tela ed il primo quadro sicuramente assegnato all'Aliberti, cioè il Transito di San Giuseppe realizzato tra il 1694 ed il 1695.
Un simile miglioramento si può spiegare mediante il contatto decisivo e ravvicinato con artisti d'alto livello, in grado di spalancargli l'orizzonte della pittura più moderna ed aggiornata e di impartirgli quegli insegnamenti che non gli potevano giungere dai suoi vecchi maestri, mestieranti onesti e tecnicamente preparati, ma limitati dal loro rassicurante provincialismo. Ci sono validi motivi per ipotizzare che il ruolo di Pigmalione poté essere svolto dal lombardo Salvatore Bianchi, artista d'alto livello che nel 1689 o poco prima iniziò la vasta decorazione ad affresco della chiesa astigiana di S. Anastasio. E' molto probabile che il pittore forestiero per realizzare un'opera così impegnativa si sia avvalso dell'apponto tecnico di maestranze locali, ed in particolare di quel ragazzo canellese che con il ciclo di Calosso aveva acquisito in zona una buona notorietà.
Non a caso per almeno duecento anni la critica d'arte attribuì all'Aliberti metà delle pitture di S. Anastasio, oggi assegnate in toto a Salvaton Bianchi: tale attribuzione nacque forse dalla reminiscenza, in seguito troppo sopravalutata, di un intervento di meno praticantato eseguito dal Nostro nel cantiere astigiano. Il contatto con l'artista lombardo, "..continuatone di un mondo pittorico riformato, ma anche attento osservatore della pittura genovese ed emiliana, divulgata con notevole libertà compositiva e con più chiara luminosità tonale", sortì un duplice effetto: da una parte forni gli spunti, le informazioni e le aperture culturali determinanti per la maturazione artistica; dall'altra ne rafforzò ed incrementò il prestigio locale, tanto da farlo qualificare nel 1690, e a soli vent'anni, come "Signor Pittore".
Le tele scomparse
Si è già detto che tra il 1690 ed il 1700 il ceto dirigente canellese, rinnovando o dotando ex novo i propri altari di giuspatronato nelle chiese cittadine da poco tempo radicalmente ristrutturate, diede vita ad uno straordinario periodo di fioritura artistica, in cui certamente Aliberti fu protagonista assoluto nel campo della pittura.
Se si pensa che in tale periodo furono nif atti almeno una ventina di altari, per la maggior parte dotati di nuovi apparati iconografici, si capisce come le cinque tele alibertiane realizzate entro il 1700 ed ancona conservate rappresentino solo la punta di un iceberg ben più consistente. Purtroppo la pressoché totale mancanza di testimonianze materiali o documentarie scoraggia ogni ricerca che voglia in qualche modo risalire ai molti lavori eseguiti dal pittore per la committenza locale ed in seguito scomparsi. Considerando l'indiscusso predominio dell'Aliberti nell'officina barocca canellese allo scorcio del XVII secolo gli si possono ipoteticamente ricondurre:in S. Leonardo la pala dell'Angelo Custode nella cappella costruita ed arredata nel 1689 a spese di Francesca Maria Germonia Scarampi-Crivelli, ultima marchesa di Canelli in S. Tommaso la pala di San Francesco nella cappella dei signori Lanero, del 1692; l'ancona di San Giuseppe nella cappella del signor Alberto Vanzino, del 1695; la pala di Sant'Antonio da Padova nella cappella dei Roggero, del 1696; la pala di San Carlo Borromeo, nella cappella dei signori Folli, del 1699; in S. Agostino l'ancona della Madonna delle Grazie all'altare dei signori Tessier; quella di Sant'Antonio abate all'altare dei Caire; quella di San Tommaso da Villanova all'altare del giudice Giovan Battista Grasso.
La morte di San Giuseppe
Il giorno 20 novembre 1693 i frati del convento di S. Agostino in Canelli assegnarono ai fratelli Marco Francesco e Giovanni Carlo Aliberti la cappella di S. Giuseppe esistente nella loro chiesa, essendo tale cappella abbandonata da tempo a seguito dell'estinzione dei precedenti patroni. Il 6 Febbraio 1696 la scrittura di assegnazione veniva sancita con un atto notarile d'Investitura, in cui, secondo la prassi, si regolarizzavano diritti e doveri dei contraenti, stabilendo che gli assegnatari avrebbero dovuto fornire le suppellettili e gli arredi necessari alla celebrazione della Messa "..avendoli già a tal effetto provisto il quadro del medesimo altare..". La realizzazione della tela è dunque da collocarsi tra il 1694 ed il 1695. In tale epoca i due fratelli Aliberti sono ormai personaggi di spicco in seno al notabilato canellese, e anche loro si buttano pertanto in quella "corsa al patronato" che per la comunità locale rappresenta la definitiva consacrazione dell'affermazione sociale. In particolare Giovanni Carlo si dedica al "suo" quadro con il massimo impegno, quasi ostentando al cospetto dei suoi concittadini l'ormai totale padronanza dell'arte. Il risultato è eccellente, ed il tema edificante e declamatorio viene trattato con affettuosa, umorale partecipazione, con sapide e spigliate annotazioni che neutralizzano il tono retorico di fondo.
Notevoli a questo proposito gli indaffarati angioletti in primo piano, la cruda anatomia del vecchio agonizzante, la sua espressione spossata ma fiduciosa, il bel volto insolitamente maturo e matronale della Vergine. L'impaginazione scenica, imperniata sullo sconcio prospettico del letto di San Giuseppe morente, si direbbe ispirata alla Dormitio Virginis della chiesa di S. Francesco ad Acqui, opera di maestro genovese seicentesco di ascendenza genovese paiono anche certi cromatismi squillanti e la puntigliosa attenzione per dettagli realistici, come lo splendido vasellame in maiolica, i calzari del morente abbandonati sotto il letto, o la minuziosa descrizione del legname dei mobili. La luce calda, diffusa e polverosa che circonda le figure tornendole e definendole in un chiaroscuro morbido ma deciso, sembra invece essere un omaggio alle migliori opere ed ai climi caravaggeschi del casalese Niccolò Musso.
Il quadro, a séguito della soppressione del convento di S. Agostino decretata dal governo napoleonico, fu trasferito nella parrocchiale di S. Tommaso, dove fu notato dal De Canis che lo attribuì correttamente all'Aliberti.
L'immacolata concezione
La tela fu realizzata per l'omonima cappella della parrocchiale di S. Tommaso, realizzata ex novo con i lavori di ampliamento di fine Seicento ed assegnata nel 1696 in giuspatronato ai signori Giovanni Maria e Carlo Alessandro Stresia, facoltoso speziale il primo, medico il secondo. Nel 1696 Giovanni Maria fa redigere il suo testamento, ed alla stesura dell'atto è presente il "nobile Giovan Carlo Aliberti", che probabilmente in quel periodo era impegnato a dipingere l'ancona in questione. Nel 1699 era già collocata nella cappella Stresia, come unico prezioso arredo; solo dal 1714 attorno ad essa germoglierà la lussureggiante, fastosa vegetazione di stucchi che ha resistito fino ad oggi sebbene in grave stato di degrado. Dopo il 1861 la tela fu rimossa, e sostituita dalla settecentesca statua di Sant'Anna e Maria bambina tuttora in loco; sistemata nell'abside e dimenticata, è stata recentemente restaurata e valorizzata con un'idonea collocazione.
Pur mancando testimonianze dirette, l'attribuzione del quadro all'Alibenti, sostenuta unicamente dal De Canis, è inconfutabile sulla base dei dati stilistici ed iconografici. Il pittore, forse anche spinto dai colti committenti, aggiorna e modernizza un soggetto che soprattutto grazie all'opera del Moncalvo e dei suoi seguaci era molto diffuso ed amato nel basso Piemonte seicentesco. Prima del 1610 il Caccia aveva realizzato per i Francescani di Acqui un'Immacolata Concezione circondata da angioletti recanti i simboli delle litanie mariane, e non è improbabile che proprio quest'opera sia servita all'Aliberti come termine di confronto, se non addirittura come fonte ispiratrice. Alla soave devozionalità moncalvesca, il pittore canellese sostituisce una convinta e partecipe teatralità barocca; i putti, assai ridotti di numero, anziché schierati in bell'ondine ad ostendere gli attributi della Vergine ci giocano con innocente ma disinvolta irriverenza. Ma i corruschi, cupi nuvoloni facenti da supporto alla scena, squarciati dalla luce paradisiaca che scolpisce le carni degli angioletti con effetti luministici senza tuttavia dissipare una sorta di caligine crepuscolare, parlano un linguaggio ancona prettamente tardo-manierista, ceraniano e morazzoniano. Il dolce volto della Vergine ed il suo atteggiamento nitroso saranno ripresi dall'Aliberti circa vent'anni dopo negli affreschi in S. Martino di La Morra.
La Madonna del Rosario
La tela fu realizzata dall'Aliberti entro il 1698 per la cappella della Compagnia del Rosario nella parrocchiale di S. Leonardo, dove è ancora oggi collocata. In quell'anno i conti della Compagnia registrano un pagamento di L.111,10 "..al Pittore per la fattura del quadro della Beata Vergine del Rosario, e per la tela del medesimo". Qualche paragrafo dopo è riportata l'annotazione che rende sicura la paternità dell'opera: ".. più dato al Signor Gio. Carlo Aliberti Pittore per supplemento della sua mercede, dovuto per la fattura dello stendardo del Rosario L.20". Il quadro, a dispetto del riconoscibilissimo stile, è sempre sfuggito all'attenzione della critica, forse a causa del tono convenzionale che lo contraddistingue: è invece un tassello importante dell'opera alibertiana, per i confronti che rimandano a due tele di analogo soggetto, e cronologicamente anteriori. Una, probabilmente del nostro autore, è quella in S. Martino di Calosso di cui si è già parlato; l'altra, di ottima qualità e di autore ignoto, è nella parrocchiale di Rocca d'Arazzo e sembra avergli fornito non pochi spunti iconografici e compositivi. Nella pala canellese l'Aliberti si fa prendere la mano da una rigida schematicità devozionale, ma non rinuncia ad alcune sue tipiche preziosità, come l'eleganza degli atteggiamenti, le mani squisitamente tornite dei personaggi, il volto dolcissimo ed adolescenziale della Vergine, i vivaci cherubini scherzosi. La Santa Caterina riprende quella della tela di Calosso che a sua volta cita almeno iconograficamente il prototipo dipinto dal Moncalvo nella Madonna del Rosario a Cioccaro di Penango; il San Giacinto è tributario del Santo domenicano di Rocca d'Arazzo. I due personaggi sono collocati su uno scabro pavimento in laterizi interrotto sullo sfondo da una visione del Purgatorio. Quest'ultimo particolare, del tutto inusuale nelle opere analoghe, si deve al fatto che la Compagnia del Rosario di S. Leonardo aveva ottenuto da poco tempo la gestione e l'amministrazione di una chiesetta esistente nel cimitero parrocchiale, dedicata appunto alle Anime purganti. La bella, aggraziata Madonna presenta contatti con quella di Rocca d'Arazzo, soprattutto nei colori "..fra dolci e aciduli..." e nel morbido sfumato.
La Pentecoste
E' l'unica opera canellese, assieme al San Rocco fra gli appestati, ad essere sempre stata ricordata da quanti hanno scritto di Aliberti. Proprio grazie a questa notorietà le due tele furono restaurate nell'ormai lontano 1966.
La Pentecoste fu dipinta tra il 1699 ed il 1700 per la cappella della Compagnia dello Spirito Santo di S. Leonardo, alla quale era affidata l'amministrazione della chiesa in collaborazione con quelle del S. Sacramento e del Rosario. Nello "scarrigamento" riepilogativo per gli anni 1699-1700, riportato nel libro dei conti della Compagnia, si legge: ".. più dato al Sig. Giovanni Carlo Aliberto (sic) Pittore per la fattura del quadro della cappella dello Spirito Santo, L.198, e L.16,10 per tela e telaro .." L'opera, realizzata a costo elevato per un sodalizio ambizioso e dai gusti piuttosto aggiornati, segna un momento cruciale nel percorso artistico del pittore: è infatti la più precoce testimonianza dell'adozione di moduli emiliani e bolognesi, ed in particolare delle "..ultime desinenze d'accademia carraccesca e reniana" che la tradizione faceva dipendere da un supposto alunnato romano presso Carlo Maratta. In realtà tali stilemi, per quanto non molto diffusi all'epoca nel basso Piemonte, erano ampiamente fruibili dall'Aliberti tramite la scena artistica torinese, dove l'opera di pittori di vaglia come il Legnanino o Marco Antonio Franceschini non doveva certamente essergli sfuggita.
Certamente l'entusiasmo del neofita rese questa Pentecoste piuttosto enfatica, con un che di retorico e magniloquente destinato a non comparire più nelle opere successive. L'iconografia del quadro "..deriva sicuramente da un modello bolognese secentesco di ambito reniano, simile ad un dipinto di analogo soggetto di G.F. Gessi nella chiesa dei SS. Giacomo e Filippo a Bologna". Dal punto di vista tecnico è interessante notare l'abbandono di certe asprezze chiaroscurali che avevano contraddistinto le opere precedenti, e l'adozione di uno sfumato più unito, uniforme e "moderno".
L'analisi stilistica consente di mettere in luce punti di contatto con la tela dei santi Gioacchino, Anna e Maria Bambina in S. Pietro di Cherasco, in cui l'Aliberti esprime in modo compiuto la sua vena più affettuosa e cordiale.
La cappella dell'Epifania
Nel 1682 il facoltoso Giacomo Francesco Sardi aveva donato alla parrocchia di S. Leonardo un sedime da destinare al cantiere della nuova chiesa; in cambio ebbe la concessione del patronato su una delle cappelle da erigersi al suo interno. Nel 1699, però, la cappella assegnata era ancora del tutto spoglia e in stridente contrasto con il resto della chiesa, ormai convenientemente arredato. In quell'anno l'amministrazione parrocchiale pose l'aut-aut: o il Sardi provvedeva all'allestimento della cappella, o la concessione sarebbe stata revocata. Il gentiluomo, punto sul vivo, si attivò immediatamente: da qualificate maestranze luganesi fece realizzare un fastoso apparato in stucco, affidando ad un artista di vaglia la decorazione pittorica. Benché i documenti tacciano al riguardo, l'analisi stilistica ed iconografica conferma senza ombra di dubbio che si tratta dell'Aliberti, come già dedotto dal De Canis e, di recente, da Vittorio Boido.
La grande pala d'altare, datata 1700, ha per soggetto l'Epifania. Un recente restauro conservativo non è stato sufficiente a riparare i danni di una cattiva conservazione protrattasi per troppo tempo, e l'innegabile qualità del dipinto risulta ancora parzialmente offuscata e di non agevole lettura. Il pittore allestisce la sua affollata rappresentazione all'interno di un'architettura monumentale, e la rende sognante e fiabesca con reminiscenze iconografiche venete che all'epoca circolavano abbondantemente negli ambienti pittorici di una certa cultura, ma che nello specifico richiamano la pala astigiana del Bassanino, di medesimo soggetto. Gli squillanti toni coloristici e l'impaginazione architettonica della composizione, peraltro, rimandano alla scuola genovese certamente ben nota e studiata dal nostro artista. La complessa macchina d'altare che circonda il quadro racchiude nel fastigio l'"anconetta" dell'Adorazione dei pastori, altrettanto suggestiva, in cui l'Aliberti si ispira all'importante pala milanese pervenuta nel 1698 al vicino paese di Castelnuovo Calcea per iniziativa di monsignor Lorenzo Trotti vescovo di Pavia e feudatario del luogo S. Sempre dell'Aliberti sono i dipinti (Fuga in Egitto, Coro angelico, Sogno di Giuseppe) che decorano le tre specchiature della volta, racchiuse entro pesanti cornici vegetali: si tratta dei più antichi affreschi di sua mano a tutt'oggi conosciuti, e neanche le estese, squillanti ridipinture appontatevi tra le due guerre dal canellese Olindo riescono a mascherarne la freschezza e la qualità.
Qui il pittore sembra dichiarare apertamente la sua dipendenza dal lombardo Salvatore Bianchi, la cui opera, come si è detto, ebbe un ruolo di primissimo piano nell' iter della sua formazione artistica, soprattutto per quanto riguarda la tecnica dell'affresco. I due riquadri delle pareti laterali, con i Magi davanti a Erode e la Strage degli Innocenti, sono invece opera di una mano ignota e molto modesta.
Il "Battesimo di Costantino" già a Villanova d'Asti
L'Epifania della cappella Sardi richiama una splendida pala dell'Aliberti già a Villanova d'Asti, oggi presso il palazzo arcivescovile di Torino.
Fu commissionata da un membro dell'illustre famiglia villanovese dei Goria, che vi fece apporre il proprio stemma nobiliare, e si pensa fosse collocata in origine nella cappella di S. Croce, appartenente a tale prosapia ed esistente nella chiesa di S. Francesco oggi scomparsa.
Il dipinto ha per soggetto il Battesimo di Costantino imperatore ad opera di papa Silvestro, tema decisamente insolito nel panorama devozionale dell'epoca. Se si pensa però che San Silvestro era ritenuto l'istitutore della Diocesi di Asti, alla quale Villanova appartiene, e che nel 1699 si svolse in questa località il Sinodo Diocesano indetto dal vescovo Milliavacca, il significato dell'opera diventa più facilmente interpretabile, e rimanda alla figura di Giovanni Maria Goria, canonico della Cattedrale di Asti, pro-vicario capitolare, dottore in legge e giudice sinodale proprio nel 1699.
Questo insigne personaggio, stretto collaboratore di Mons. Milliavacca, decise forse di celebrare il ricordo del Sinodo che lo vide protagonista con un dipinto per la cappella della propria famiglia: un dipinto dagli intenti "politici", in cui non solo si esalta la figura di papa Silvestro fondatore della Diocesi astese, ma si proclama anche, a chiare lettere, il primato della Chiesa sul potere temporale, qui rappresentato da Costantino il Grande. Un'allusione, forse, al conflitto che opponeva la Santa Sede al duca di Savoia riguardo la giurisdizione dei "Feudi di Chiesa", e forse un omaggio alla figura stessa del vescovo Millavacca, non solo risoluto difensore delle prerogative ecclesiastiche, ma anche attento sostenitore delle istanze locali dell'Astesana nei confronti della politica accentratrice di Vittorio Amedeo II. Alla luce dei motivi sopra esposti si può dunque ipotizzare per il quadro una datazione non molto posteriore al 1700, datazione che può essere confermata anche dalle stringenti analogie con l'Epifania della cappella Sardi, benché nella tela villanovese si noti una maggiore e più decisa accentuazione dell'influenza genovese.
Sei anni di assenza
Dagli inizi del 1701 fino alla fine del 1706 inizia un vero e proprio "buco nero" sia nella biografia dell'Aliberti che nella sua produzione artistica. La tradizione erudita colloca in questo periodo un lungo soggiorno romano e addirittura un alunnato presso la bottega di Carlo Maratta non esistono però documenti o attestazioni in grado di confermarlo. Il buon senso dice che un pittore ormai affermato, giunto alla sua prima maturità artistica e in fertile contatto con le migliori scuole del nord Italia, ben difficilmente avrebbe mandato all'aria un'attività ormai fiorente ed intensa per trascorrere sei lunghi anni alla stregua di un qualsiasi garzone di bottega. Si ha invece il sospetto che la notizia della permanenza a Roma dipenda un po' troppo da una cantonata presa da Gaudenzio Claretta, il quale confuse il nostro Giovanni Carlo con il figlio di lui, sicuramente avviato a studi pittorici nell'Urbe.
Naturalmente nulla vieta di pensare che nel 1701 l'ormai trentenne Giovanni Carlo si sia concesso un periodo sabbatico per un viaggio di ricognizione in quella che all'epoca era ancora riconosciuta come indiscussa capitale delle arti: ma se ciò avvenne non dovette trattarsi di un periodo così prolungato come quello supposto dagli storici. Bisogna inoltre aggiungere che nel 1703, durante l'assenza dell'Aliberti, scoppiò la guerra contro la Francia, e l'Astesana e tutto il Piemonte, ancona una volta, furono funestati dagli eventi bellici. Tra il 1703 ed il 1705 Canelli in particolare ebbe a soffrire occupazioni militari, saccheggi, requisizioni, danni e sciagure talmente gravi da costringere certamente l'artista a rimanere prudentemente lontano dalla sua patria fino al sistemarsi delle cose. E' più probabile che l'Aliberti dopo l'ipotetico viaggio romano sia stato costretto dagli eventi ad una sorta di esilio forzato, durante il quale lavorò "allestero" magari grazie ai buoni uffici di Salvatore Bianchi o di Giovan Battista Pozzo, visto che entrambi avevano avuto modo di conoscere le qualità del pittore dell'Astesana. E sono forse una traccia di questo periodo i lavori eseguiti dal Nostro a Pavia, ricordati dal Bartoli ma purtroppo non più esistenti.
Ancona di San Giacomo (1706 - 1707)
Nel 1613 il notaio Domenico Ravazza, mediante lascito testamentario, aveva fondato una cappellania in S. Leonardo dedicata a San Giacomo, dotandola di un cospicuo beneficio terriero. Nel 1706 poiché tale beneficio non forniva redditi da molti decenni causa reiterata insolvenza dei fittavoli, l'Amministrazione parrocchiale decise di venderlo e di destinare il ricavato all'allestimento di una nuova cappella, conformemente alle pie intenzioni dell'antico donatore.
Il 15 maggio del 1707 si redigeva il consuntivo delle spese effettuate, fra cui figura la cifra di L.80 "..date al Pittore per il quadro..", di L. 10 per l'acquisto della tela, di L.27 per la cornice. Anche in questo caso la mancanza di espliciti riferimenti all'Aliberti è resa superflua dagli inconfondibili dati stilistici che consentono di attribuirgli con sicurezza la paternità dell'opera, certamente una delle prime realizzate dopo il ritorno in patria, e probabilmente una delle ultime dipinte a Canelli, in attesa del definitivo trasferimento in Asti. Indipendentemente dalle vicende occorse al pittore durante la sua lunga assenza, questa bella ancona proclama un'entusiastica adesione ai modi dell'accademia romana-bolognese e più ancona un convinto omaggio all'ante di Guido Reni. Neanche il pessimo stato di conservazione della tela riesce a celare l'alta qualità del dipinto, con un giovanile apostolo Giacomo in veste di pellegrino, pervaso da una sottile malinconia ed al tempo stesso percorso da un'energia trattenuta.
Pala di San Martino nella parrocchiale di Calosso
La pala, di notevoli dimensioni, è oggi poco visibile in quanto collocata nel profondo catino absidale costruito nel 1870 in sostituzione dell'abside originale assai più vicina all'altar maggiore. E' sempre sfuggita all'attenzione di tutti coloro che si occuparono dell'Aliberti, e la ignorò lo stesso De Canis, che pur vide ed annotò le sue pitture nelle cappelle laterali.
Tanto disinteresse non e giustificato, in quanto l'opera testimonia una ulteriore maturazione in senso marattiano delle desinenze romano-bolognesi esplose nello stile alibertiano a partire dal 1700; più ancora, costituisce una delle prime, vigorose sterzate verso un linguaggio barocco più spumeggiante e leggero, quasi vezzoso e ormai alle soglie del rococò, che caratterizzerà ad esempio gli affreschi di San Martino in Asti e quelli di S. Caterina a Casale. Nello sfondo della pala calossese la pennellata si fa modernamente sciolta, capricciosa e quasi eterea, mentre il santo protagonista è paludato con paramenti episcopali dai turbinanti panneggi descritti con ostentato virtuosismo. Il quadro dovrebbe essere di poco posteriore all'ancona di S. Giacomo del 1706-1707, e forse fu ancona eseguito dall'Aliberti nella bottega canellese prima del definitivo trasferimento in Asti.
Ancona della Confraternita di San Rocco a Canelli
1714: Giovanni Carlo Aliberti abita stabilmente in Asti ormai da sei anni, ma naturalmente non ha reciso i contatti con la vicina città natale e con la vasta parentela che vi risiede. In quell'anno la Confraternita canellese di S. Rocco, nell'intento di coronare degnamente i restauri al proprio oratorio, gli commissiona l'ancona per l'altar maggiore, rifatto in legno dorato e in struttura "..assai leggiadra, incavata e perforata, e con due collone dipinte fatte d'assi in forma ritorta..". La Confraternita di S. Rocco nel rione di Villanuova, composta in prevalenza da piccoli proprietari terrieri e semplici contadini, pur non essendo ricca è in grado di rivolgersi ad uno dei migliori pittori del Piemonte meridionale, grazie ad una fruttuosa colletta fra i suoi aderenti. I "Battuti" di S. Rocco ottengono la loro ancona nello stesso anno 1714, pagandola L.136.13.
Interessante la sua descrizione riportata nell'inventano del 1727: "Si ritrova ad uso, et in proprietà di detta Confraternita di San Rocco l'Incona, o sii quadro rappresentante il santo in atto di operar miracoli sanando amorbati di peste, continente figure: una di donna con putto in braccio, altra di donna riguardante l'angelo in un angolo che fa cenno verso il santo. Due uomini semimonti et altri due uno di questi portante l'altro dal santo per recuperarne la salute, oltre quei ornamenti inventati dall'ante, di capanna, cane etcetera". La tela, quasi coeva ai raffinati ed aggiornati interventi nella parrocchiale di S. Martino in La Morra, se ne discosta per il tono convenzionale, didascalico e patetico, quasi arcaizzante: tono certamente voluto dal pittore per soddisfare le esigenze di una committenza rurale assai più attenta all'aspetto devozionale che a quello artistico dell'opera. Ciò nonostante non mancano preziosità stilistiche ed invenzioni interessanti, come la grande capanna in legno ridotta a pura struttura geometrica, a reticolo spaziale che inquadra la scena.
Il quadro fu ignorato dal solitamente attento De Canis, e fu ricondotto all'Aliberti dal Baudi di Vesme, che pure ne sbagliò la datazione assegnandola al 1716. Dopo la II guerra mondiale fu asportato dalla ormai fatiscente confraternita di S. Rocco e collocato nella parrocchiale di S. Leonardo dove si trova tuttora. Fu restaurato nel 1966.
Dopo Aliberti
La pala di S. Rocco, a quanto si sa, fu l'ultima opera realizzata dall'Aliberti per la sua città natale. Dopo quella data l'officina barocca canellese ebbe una battuta d'arresto, essendo ormai completati in forma più che soddisfacente gli allestimenti degli spazi cultuali, mentre la committenza delle istituzioni religiose e dei laici si orientava ormai verso il reperimento di suppellettili preziose, sculture, argenti, paramenti sacri. Una certa ripresa delle campagne decorative si ebbe a partire dal terzo decennio del XVIII secolo, quando un altro pittore canellese, Francesco Antonio Vanzino, pur rimanendo confinato ad un ambito strettamente locale tentò di emulare il successo alibertiano con minore fortuna e capacità.
La sua famiglia era oriunda di Curio Luganese, e impegnata fino alla metà del Seicento nell'attività edilizia, abbandonata poi a favore del commercio grazie al quale pervenne a notevole prosperità, prestigio e ricchezza. Donna Clemenzia Vanzino, come detto in apertura, fu madrina di battesimo di Giovanni Carlo Aliberti nel 1670, e le due famiglie in seguito furono legate da vincoli di parentela; proprio questo fattore induce a pensare che il giovane Francesco Antonio frequentasse la bottega astigiana del congiunto celebre pittore, apprendendovi i rudimenti dell'arte e specializzandosi nella tecnica dell'affresco. I suoi primi lavori, di modesta entità, sono documentati nel 1722 nella parrocchia di 5. Leonardo; in seguito otterrà incarichi più impegnativi, come le Storie del vecchio Testamento nel presbiterio della stessa chiesa, integralmente conservate, dipinte nel 1728. Fra le altre opere documentate sono da ricordare le riquadrature prospettiche eseguite nel 1733 nella cappella della Pentecoste che stanno tornando alla luce sotto lo scialbo ottocentesco; le decorazioni eseguite in collaborazione con Bartolomeo Rinaldi, altro pittore della cerchia alibertiana, nella cappella di 5. Anna nel 1736; un grande affresco sulla facciata di S. Tommaso, ritenuto il suo capolavoro ma andato distrutto nell'Ottocento.
E' probabile che buona parte della sua attività fosse indirizzata alla committenza privata, impegnata a decorare le case della buona borghesia locale. I lavori superstiti del Vanzino, benché irrimediabilmente provinciali, recano un'innegabile impronta dell'arte alibentiana, e tutto sommato costituiscono un'interessante testimonianza della pittura piemontese minore di primo Settecento, che merita di essere riscoperta e studiata. A partire dal 1748 non si hanno ulteriori notizie di questo artista. Dopo di lui sarà poi il moncalvese Carlo Gonzio, con l'aiuto del portoghese Antonio De Carvalho, a prendere in mano le redini dell'arte locale.
Carlo Gancia
- l'inventore del primo spumante italiano
Nacque a Narzole nel 1829. Attento conoscitore delle esigenze del pubblico e acuto osservatore delle modificazioni dei consumi, Carlo Gancia fu un vero e proprio pioniere: fin dalla prima infanzia sembrò dimostrare una predilizione per i valori che stavano alla base dei vini.
Nel 1865 riuscì a produrre il primo spumante italiano con il Metodo Champenois, oggi denominato Metodo Tradizionale Classico.
La Fondazione
Ripercorrendo direttamente sul campo tutti i processi che permettevano la realizzazione del prodotto, Carlo si appropriò dei segreti e delle tecniche del metodo classico di lavorazione degli champagne, denominato dai francesi "champenoise".
Nel 1850 tornò in Italia per poter iniziare gli esperimenti che potessero rendere realizzabili le sue intuizioni: adattare il modello di vinificazione francese all'uva moscato che presentava caratteristiche simili al pinot.
Coadiuvato dal fratello Edoardo, Carlo affittò una vecchia cantina a Chivasso, luogo strategico di passaggio ferroviario, che diventò ufficialmente la Casa di produzione "Fratelli Gancia" nel 1850.
1865: nasce lo Spumante
Nel 1865 Carlo riuscì finalmente ad ottenere un tipo di champagne a base di moscato. Bastò eliminare gli sciroppi che i produttori di champagne francesi erano soliti aggiungere al termine della lavorazione.
Nasce così nel 1865 il Primo Spumante Italiano. Il moscato, lavorato secondo questi criteri, non solo permetteva di raggiungere un vino simile a quello francese e a costi decisamente inferiori, ma addirittura di apparire, per la sua aromaticità, "superiore" ed originale.
I Gancia decisero di affittare una piccola cantina collocata direttamente sul luogo di produzione della materia prima.
La scelta ricadde sulla cittadina di Canelli, che si trovava proprio al centro di quel nucleo ristretto di colline delle Langhe e del Monferrato nel quale si coltivava l'uva considerata essenziale per la produzione degli champagne secondo il metodo Gancia, cioè l'uva moscato.
Nel 1880 nacque la società "Fratelli Gancia e C."
Da allora la famiglia Gancia ha profondamente influenzato non solo la storia di Canelli e delle sue terre, ma anche la cultura del bere in Italia e nel mondo.
Giovan Battista Giuliani (1818 - 1884)
- considerato il più grande studioso di Dante Alighieri dell'800
Nacque a Canelli il 4 giugno 1818 e morì a Firenze l'11 gennaio 1884. Compì i primi studi ad Asti, si trasferì poi a Fossano dove, a 18 anni, vestì l'abito dei Padri Somaschi. Nel 1828 era insegnante di filosofia nel Collegio Clementino di Roma, poi presso il liceo di Lugano. Ma la debole salute del Giuliani lo costrinse ad uscire prima dal rigido ordine dei Somaschi, poi a rinunciare alla cattedra di Lugano per cercare un luogo più adatto alle sue condizioni fisiche. Si recò a Roma, poi a Napoli ove, migliorato notevolmente, riprese con novello ardore lo studio. In questo periodo fu nominato socio dell'Accademia fondata da Giovanni Pontano e durante la resistenza in Roma, fece conoscenza col dotto prof. Parchetti che lo avviò allo studio di Dante.
L'amore per questi studi lo assorbì completamente, onde lo vediamo nel 1846 al Congresso degli Scienziati in Genova dimostrare che la Divina Commedia rappresentava il più grande e completo monumento della storia d'italia. Fu a Genova dal 1847 al 1859 dove tenne la Cattedra d'eloquenza sacra. Nel 1854 da Genova si trasferì a Firenze dove le sue peregrinazioni per le campagne toscane gli diedero modo di attingere il soavissimo e proprio linguaggio dalla bocca del popolo. Da questo studio uscirono i volumi: "Lettere sul vivente linguaggio della Toscana" e le "Ricreazioni filologiche", che furono poi unite in un unico volume dal titolo: "Delizie del parlar toscano". Quando il Ricasoli fondò in Firenze l'Istituto di Studi Superiori, si creò per il Giuliani una cattedra: la cattedra dantesca che egli illustrò dal 1853 fino alla morte.
Quella cattedra era stata affidata nel 1373 a Giovanni Boccaccio per spiegare il poema di Dante. In questo periodo di particolare attività, il Giuliani commentò tutte le opere minori di Dante. Nel 1863 pubblicò quello sulla "Vita nuova" e sul "Canzoniere", nel 1878 sul "De Vulgari eloquentia" e "De Monarchia".
Giuliani ebbe l'onore di essere nominato Membro Accademico della Crusca, ed in questo consesso portò tutta la sua attività di letterato. Egli venne scelto a recitare i discorsi commemorativi in S. Croce, il 14 maggio 1865, in occasione del VI centenario della nascita, ed a Ravenna il 26 giugno sull'urna del primo poeta del mondo.
Dopo la soppressione degli Ordini religiosi, ottenne di essere ascritto, come sacerdote secolare, alla Diocesi di Asti (1863), e portò sempre l'abito ecclesiastico.
Molti furono gli onori tributati al Giuliani tra i quali, quelli che più lo commossero, la cittadinanza onoraria di Firenze, la nomina a Cavaliere dell'Ordine civile di Savoia. Dopo aver commentato tutte le opere minori di Dante, si accinse per ultimo al commento del Poema Eterno tramite la formula "Dante con Dante", intendendo con ciò asserire la necessità di conoscere Dante attraverso le opere minori. A questo poderoso lavoro il Giuliani si dedicò con tutte le foze dell'animo suo. Quantunque il Giuliani scrivesse in una lettera del novembre 1875 di morir contento appena avesse portato a fine il Commento della Divina Commedia, tale opera non potè completare, a causa della salute indebolita e della vista che andava perdendo.
La sua vita volgeva inesorabilmente verso la fine. Prima di spegnersi dettò tutto quello che voleva venisse fatto dopo la sua morte, esprimendo un accorato dolore per non poter rivedere la nativa Canelli. Egli espresse il desiderio che nel sepolcro fosse deposta una fronda dì sacro ulivo, simbolo di pace.Venne sepolto a Firenze, nel Cimitero della Misericordia. E con Lui scesero nella tomba una copia della Bibbia, della Divina Commedia e il simbolico ramo di ulivo.
Nel corso della sua vita raccolse anche innumerevoli cimeli su Dante che dono alla Città di Firenze e servirono per creare il primo nucleo del museo dantesco.
Canelli erigeva il 20 ottobre 1890 un bel monumento marmoreo, recante la figura del Giulìani e la seguente epigrafe: "A Giambattista Giuliani - Del poema dantesco - Scrutatore profondo - Del vivente linguaggio toscano Amoroso cultore - Della concordia -Tra religione e patria - Propugnator costante - Canelli - Gloriosa di avergli dato la culla - Gli amici gli ammiratori posero."
A Canelli vi è anche una via (in cui si conserva la casa in cui nacque), ed una scuola a lui intitolate.